30 novembre 2020

Charles Dickens
Le Due Città

Titolo originale A Tale of Two Cities

Trama
Newton & Compton
pag. 384 | € 4,90
Romanzo storico consacrato al realismo narrativo, Le due città mette in scena i destini di personaggi coinvolti nel vortice degli eventi della Rivoluzione francese e del successivo periodo del Terrore. Sebbene l’ambientazione, tra Londra e Parigi – le due città del titolo – differisca notevolmente dall’Inghilterra vittoriana, cui il romanziere ha quasi sempre attinto per i suoi lavori, quest’opera contiene tutti i classici temi dickensiani: dalla povertà alla nobiltà di spirito, dal sacrificio alla redenzione. Considerato dall’autore stesso uno dei suoi più riusciti esiti narrativi, Le due città è un testo che appassiona il lettore sin dalla prima pagina per il suo mescolare verità storica e finzione, ricerca erudita e capacità di rappresentazione delle sofferenze umane.
Quel che faccio è il meglio, di gran luga il meglio che io abbia mai fatto; e il riposo che m'attende il più dolce, di gran lunga il più dolce che io abbia mai conosciuto.
Commento
Faccio subito outing perché credo che là fuori ci saranno altri soggetti come me. Ho letto Le due città perché la Clare lo aveva così ben presentato in uno dei suoi romanzi, creandoci attorno un'aura di malinconica e struggente nostalgia che io ho subito comprato l'edizione italiana. Non che io sia digiuna di Dickens, anzi, però non sono un'appassionata come lo sono per Hardy, e non sono attratta da tutta la produzione dell'autore quindi mi lascio spesso convincere da fattori esterni. Tipo in questo caso.
Ora, pur avendo da anni il romanzo nella libreria, mi sono decisa a leggerlo solo quest'anno perché mi ero imposta di smaltire almeno 6 classici della mia collezione, altrimenti sarebbero rimasti in eterno a prendere polvere. Tra i sei Le due città era in pole position, ma è l'ultimo della mia personale challenge che prenderò in mano perché ormai l'anno è finito e vorrei almeno arrivare ai 50 romanzi letti nel 2020.
Detto questo mi sento anche in dovere di mettere le mani avanti e giustificare subito il voto, perché altrimenti mi sento un'impostora. Partendo dal presupposto che non giudico i classici in base alla forma, allo stile, o alla loro importanza nella letteratura, i miei voti sono quasi sempre solo ed esclusivamente riferiti alla storia e alla sua capacità di entrarmi nel cuoricino. Mi sembra scontato che non posso permettermi di commentare o giudicare un nome come quello di Dickens, per carità del cielo sarebbe un'eresia, ma posso dare i miei due cent sul feeling che ho avuto con la trama e i personaggi.
Posso, però, fare una piccola nota per quanto riguarda l'edizione italiana. Già in generale si legge poco, per non parlare dei classici che sono l'uomo nero letterario usati come arme per respingere intere generazioni di studenti, sparare fuori edizioni così carine ed economiche - per quanto sia assolutamente lodevole - non serve a niente se la traduzione sembra uscita direttamente dai primi del '900. Se si è un lettore navigato e si ha una certa dimestichezza con la lingua italiana non ci sono grossi problemi, altrimenti la lettura si frena in partenza da una traduzione che ha uno stile e un lessico quasi obsoleti. Una traduzione più attuale, meno complessa e ricercata, sicuramente aiuterebbe a rendere meno ostico il romanzo e ad aprire a tutti la possibilità di approcciare un classico importante e interessante come questo. In più, segno inconfondibile dell'età della traduzione, c'è il difetto - ai miei occhi - di italianizzare i nomi personali dei personaggi: Charles diventa Carlo, Lucy diventa Lucia, tutti quelli che hanno un corrispettivo italiano vengono tradotti mentre gli altri rimangono in originale. Personalmente detesto quando traducono i nomi. Positivo è che il romanzo non arriva a 400 pagine e che abbia una suddivisione interna di capitoletti molto brevi che alleggeriscono moltissimo la lettura.
Ora passo alla storia. Quando ho iniziato Le due città mi aspettavo un affresco molto più pittoresco di Londra e Parigi, invece ho quasi subito capito che la protagonista - sua malgrado cattiva - è Parigi, mentre Londra è un porto sicuro circoscritto solo ad alcune sue zone e che in realtà lascia il posto d'onore ai suoi personaggi. Da Dickens mi aspettavo qualcosa di più asettico e cinico, invece i suoi protagonisti sono l'opposto: apparentemente non si capisce a cosa servono e solo alla fine chiudono la vicenda in modo organico. Alla fine però bisogna arrivarci, superando una parte iniziale che più che farti chiedere dove vuole andare a parare non fa: bisogna resistere, ma soprattutto bisogna prestare attenzione perché quella prima parte è una sorta di scacchiera che Dickens prepara una pedina alla volta, lasciando indizi che poi spunteranno fuori al momento opportuno e che ti faranno capire che, nonostante la lentezza, tutto ha un senso. Certo che, insomma, avere dubbi sulla capacità di Dickens di costruire il plot è da tribunale, ma vabé.
I protagonisti sono molti e nessuno prende mai sul serio il sopravvento sugli altri, la loro è la storia di una famiglia e di una disavventura causata da una situazione fuori dal controllo del singolo. Partendo da un sobborgo di Londra, dove vive una piccola famigliola composta da nonno, madre, padre e figlia, includendo un vecchio amico e uno strano conoscente che rimane sempre in disparte, ci si sposta a Parigi, dove è appena iniziata la Rivoluzione. Detta così sembra una noia mortale, ma c'è spazio e tempo per ogni cosa. Il nonno è un medico francese, rimasto imprigionato ingiustamente nella Bastiglia per quindici anni dove ha perso il senno. Con l'aiuto del suo vecchio valletto Defarge, ora proprietario di una bettola, e del banchiere Lorry suo vecchio amico, e di Lucia, sua figlia mai conosciuta, il dottor Manette viene spostato in gran segreto da Parigi a Londra, dove con molta pazienza torna ad essere sano di mente e dove, con l'assistenza della figlia devota, torna alla vita normale esercitando il mestiere. La vita della famigliola viene messa sulla strada di Carlo Darnay, un giovane parigino accusato di spiare il governo inglese per conto dei francesi, e nel giorno del suo processo per tradimento il giovane sarà salvato dall'idea geniale di Sydney Carton, avvocato dedito alla dissoluzione totale e cinico fino al midollo. Così il gruppo è formato, la vita va avanti, Lucia e Carlo si innamorano e si sposano e tutto sembra essere arrivato alla giusta fine per tutti. Un giorno, però, Carlo riceve una lettera da un suo vecchio conoscente che gli chiede di andare a Parigi per testimoniare a sua favore perché l'uomo è stato arrestato e rischia la morte. Darnay, essendo un uomo fondamentalmente buono, medita un po' sui pro e i contro ma poi si lascia convincere a partire per salvare l'uomo. Appena mette piede in Francia, però, le cose non fanno per niente come pensava. Subito Carlo viene preso in custodia dai repubblicani perché Carlo è un nobile - anche se ha rifiutato il titolo - che ha lasciato la Repubblica. La Francia è in piena Rivoluzione, i nobili vengono uccisi come pecore al macello, le strade sono controllate dai dei ceffi che si fregiano di decidere la vita e la morte delle persone in nome della libertà, dell'uguaglianza, della fraternità, o morte. Dickens non ha peli sulla lingua quando ci presenta la situazione francese, non nasconde le sue perplessità di fronte alla rivoluzione che camuffa una vera carneficina, e non si tira nemmeno indietro a descrivere in modo dettagliato la mostruosità della folla ignorante e inferocita dei poveracci. A questo punto tutta la storia prende delle tinte oscure, Carlo rimane imprigionato per un anno e a niente vale l'intercessione di Manette, considerato dai repubblicani un eroe. Tutta la famiglia ormai è a Parigi per aiutare Carlo, incluso il banchiere Lorry, e le vicissitudini di questi personaggi diventano talmente negative che ad un certo punto ti aspetti veramente di tutto. La parte finale del romanzo, quella più vivace e accattivante dal punto di vista narrativo, è anche quella che porta in scena ancora una volta Carton e che lascia il lettore all'ultima riga con le lacrime agli occhi.
Inaspettatamente, ho finito il romanzo e all'ultima riga mi sono accorta che stavo piangendo. Ed è questo che mi ha lasciata sorpresa alla fine, perché Dickens non è un autore che sa muovermi a lacrime, sa sicuramente prendermi e schiaffarmi in testa immagini e storie molto poco felici, ma piangere è tutto un altro discorso. Eppure così è andata, ma per quanto sia appassionante e commovente la parte finale, mi chiedo se sia sufficiente per far finire il libro nella mia collezione o farlo uscire verso la donazione alla biblioteca. Probabilmente sceglierò la seconda opzione, più per una questione di spazio e di oggettivo attaccamento che per altro, perché per come la vedo io la parte finale ripaga di tutta l'attesa precedente e di tutta la - media - fatica fatta per arrivarci.
Chiuso così e vi saluto, ci rileggiamo a Gennaio.

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