Titolo originale 우리들의 행복한 시간
Trama
Bladini Castoldi Dalai pag. 352 | € 20,00 |
Dopo aver tentato il suicidio per tre volte, Mun Yujong, giovane professoressa universitaria, accetta l'invito della zia, Suor Monica, di accompagnarla nelle visite a un detenuto rinchiuso nel braccio della morte, sperando che questo incontro possa in qualche modo spingerla a vivere. L'uomo, Chong Yunsu, ha alle spalle un'infanzia tormentata: dopo il suicidio del padre e l'abbandono della madre, cresce in un orfanotrofio e poi per la strada, fino a quando, coinvolto nell'omicidio di tre donne, viene condannato. È attraverso un piccolo taccuino che tiene in cella che conosciamo il suo passato: ricordi di una voce dapprima sconosciuta che a poco a poco assume il volto dell'uomo in cui Mun Yujong si perderà. Anche lei, pur provenendo da un famiglia agiata, è prigioniera di eventi traumatici mai superati. Con grande scetticismo, accetterà di incontrarlo ogni giovedì dalle 10 alle 13, per un mese: diventeranno le loro ore felici. Uno davanti all'altra, ed entrambi di fronte alla morte, le loro anime si apriranno lenendo ferite profonde e scoprendo quell'intimità e quella comprensione che la vita non ha concesso loro. Solo così Mun Yujong ritroverà una motivazione per vivere, riconciliandosi con quella rigida educazione cristiana cui si era ribellata con tutta se stessa; solo così riconoscerà la forza dell'amore e del perdono, abbracciando la colpa di Chong Yunsu, altrimenti destinata a non trovare mai pace.
Ognuno di noi è triste. La tristezza è un bene che non possiamo donare ad altri. Perché agli altri possiamo donare tutto, ma non noi stessi. Ciascuno di noi vive la tragedia del possedere se stesso. Tale tragedia è una cicatrice che appartiene soltano a ciascuno di noi. Fiumi di lacrime, fiumi di tristezza, fiumi di lamenti, diversamente dagli altri beni, la tristezza è divisa equamente tra gli esseri umani. (Pak Samjung, monaco buddista)
Commento
Lo ammetto, ho scelto questo romanzo mentre spulciavo su IBS alla ricerca di autori coreani; l'ho messo nel carrello perché ne hanno fatto un film, ma la decisione finale è stata presa di fronte ad uno sconto del 50% pensando che, male che vada, lo avrei potuto mollare in biblioteca o dargli un'altra casa. Non essendo incline ad acquisti impulsivi, ho rimuginato qualche giorno prima di comprarlo e una volta arrivato l'ho messo nella pila dei romanzi soprammobili, forse intimidita dalla trama.
La trama è un ostacolo, se non per tutti sicuramente per molti, e per me è stato il fattore principale della mia indecisione. Non sono religiosa, non leggo storie di persone che scoprono Dio o che vedono la luce in qualsiasi credo, e non sono nemmeno una persona che crede nell'essere buoni con tutti, criminali inclusi, quindi leggere questo romanzo è stato una vera prova, per me.
Mi sono detta, se a 37 anni non sai leggere un romanzo e uscire dalla tua comfort zone, rimani relegata nel mondo dei sogni e finiamola lì. Non che ci sia nulla di male, ma ho sentito il bisogno di provarci, di infilarmi in una spirale mentale che è lontana anni luce da qualsiasi spirale mentale che mi sono creata in questa vita.
Il romanzo ha un grosso tema principale che unisce due argomenti opposti. Il perdono è il fulcro della storia, mentre la violenza sessuale e la pena di morte sono i due temi dai quali si sviluppa la trama. Già da qua è chiaro che non ci saranno molti argomenti frivoli e che se ci si aspetta una storia leggera - nonostante il tema - dove tutti alla fine si vogliono bene e vissero felici e contenti, ecco, NO. In un certo senso il realismo della narrazione è ciò che mi ha fatto apprezzare tanto il romanzo: l'autrice non ha voluto raccontare una storia, dare un messaggio al lettore, e poi chiudere con frivolezze, ha volutamente tenuto il contatto con la realtà sia per i pensieri e le reazioni dei personaggi, sia nello sviluppo della storia. Scene singole che avrebbero guadagnato chissà quale carica drammatica, se solo fossero state un po' manipolate, si accontentano di un moderata ma decisamente incisiva drammaticità proprio perché preferiscono essere vere e non sensazionalistiche.
Probabilmente lo stile dell'autrice ha fatto il grosso del lavoro, perché c'è una semplicità nel lessico ma una essenziale e poetica composizione dei periodi che fanno scorrere la lettura senza fatica, senza ostacoli o pause che rovinano l'esperienza. Non so se è una caratteristica comune ai romanzi della Gong (lo scoprirò, ho altri romanzi suoi), ma funziona: funziona perché la storia arriva senza filtri, senza giri che allungano e smorzano la brutalità della storia, te la presenta così com'è senza abbellimenti, senza moderare i toni ma anche senza calcare la mano per aumentare il senso opprimente di tristezza del romanzo.
Un aspetto che mi ha colpita è stata il libero movimento della protagonista e principale voce narrante. Considerando il suo ruolo e la sua storia, Yu Jong è un personaggio negativo, ruvido, di quelli con il quale fatichi ad empatizzare perché il suo essere vittima viene sminuito se non cancellato dal suo comportamento distruttivo. Yu Jong è alcolizzata, ha un rapporto difficile con la famiglia, e ha un atteggiamento conflittuale con tutto, inclusa se stessa. Non è felice e non vive una vita felice, non ha progetti per il futuro, si limita a navigare giorno per giorno tra i flutti della depressione e, quando non ce la fa più e il trauma della violenza ritorna in superficie, tenta il suicidio. Al terzo episodio, mentre è in ospedale tentando di convincere tutti che non voleva veramente morire, la zia suora decide di infilarsi a forza nella sua vita e trascinarla con sé in una serie di incontri ai detenuti del braccio della morte. Yu Jong è totalmente disinteressata all'argomento, per lei se sei in carcere e hai la pena di morte evidentemente te lo meriti, ma potendo evitare la terapia decide di assecondare la zia, anche se viene segretamente convinta dall'idea di incontrare un detenuto accusato, oltre che di omicidio, di aver stuprato e ucciso una ragazzina.
Il detenuto si chiama Yun Su, è accusato di duplice omicidio e violenza sessuale, e forse anche di altri reati minori, ed è condannato alla pena di morte. La prima volta che Yu Jong lo vede, Yun Su ha le mani legate, le caviglie legate, e ha le orecchie viola per il freddo. Curvo, silenzioso, respingente, è chiaro che non ha interesse ad incontrare la suora, non ha fiducia nella chiesa e non crede in Dio. In un certo senso Yun Su è un vegetale, in attesa di morire, si limita ad esistere. Yu Jong non partecipa attivamente, lo studia, osserva la zia, la guardia, e si fa una sua idea sulla persona. Non parla nemmeno, la sua presenza è richiesta solo e soltanto perché il fratello morto di Yun Su adorava sentirla cantare l'inno nazionale. La resistenza fisica e spirituale della zia incuriosisce Yu Jong, così quando l'anziana si ammala è lei a proseguire le visite, ma a modo suo. Yu Jong affronta Yun Su a muso duro, gli dice senza mezzi termini che non è interessata ad argomenti banali, alla religione, o alle frasi di circostanza e vuole instaurare con lui un dialogo vero, interessante. Inizia lei, e racconta la sua storia, dalla violenza alla reazione della famiglia al modo in cui si ritrova a vivere, e Yun Su assorbe tutto come una spugna e poco alla volta si ammorbidisce, perde quella patina da pupazzo inanimato e assume i contorti di un vero essere umano. Aiuta moltissimo l'inserimento ad inizio capitolo di una parte narrata da Yun Su, dove viene riassunta la sua vita fino al momento del suo arresto.
Ecco, se devo essere onesta, avrei preferito che l'autrice non ritrattasse sulla colpevolezza del personaggio. Il senso generale della storia è di saper perdonare, saper vedere nel cuore di un uomo e non perdere speranza affinché riprendano una via moralmente sicura. Il perdono per Yun Su sarebbe stato potente, mentre così è praticamente scontato, e per me ha rammollito un romanzo duro, crudo, vero. Il finale del romanzo è quanto di più lontano dal lieto fine ci possa essere, perché Yun Su viene giustiziato, pure se innocente, e Yu Jong è l'unica a beneficiare di tutta questa esperienza. Seppure non totalmente tornata alla normalità, Yu Jong ha trovato una sua dimensione nel sentimento strano che è nato tra lei e Yun Su: loro lo chiamano amore, ma forse può essere definito in tanti modi diversi, e non solo amore romantico.
Questo è un romanzo impegnativo, è inevitabile farsi qualche domanda e chiedersi come reagiresti di fronte a certe realtà. E' veramente così illuminante la redenzione religiosa? E' così effettiva? Ed è così facile dimenticare un trauma negato per anni dalla famiglia che ti ha segnata in modo così tragico?
Non lo so, di sicuro è chiaro che l'autrice crede molto nel perdono, nella compassione e nel trovare una forza inesauribile nella religione. Io rimango perplessa, ma aperta al dialogo.
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