5 febbraio 2015

Valentina D'Urbano
Quella vita che ci manca

Trama
Longanesi
pag. 332 | € 14,90
Gennaio 1991. Valentino osserva le piccole nuvole di fiato che muoiono contro i finestrini appannati della vecchia Tipo. L’auto che ha ereditato dal padre, morto anni prima, non è l’unica cosa che gli rimane di lui: c’è anche quell’idea che una vita diversa sia possibile. Ma forse Valentino è troppo uguale al posto in cui vive, la Fortezza, un quartiere occupato in cui perfino la casa ti può essere tolta se ti distrai un attimo. Perciò, non resta che una cosa a cui aggrapparsi: la famiglia. Valentino è il minore dei quattro fratelli Smeraldo, figli di padri diversi. C’è Anna, che a soli trent’anni non ha ormai più niente da chiedere alla vita. C’è Vadim, con la mente di un dodicenne nel bellissimo corpo di un ventenne. E poi c’è Alan, il maggiore, l’uomo di casa, posseduto da una rabbia tanto feroce quanto lo è l’amore verso la sua famiglia, che deve rimanere unita a ogni costo. Ma il costo potrebbe essere troppo alto per Valentino, perché adesso c’è anche lei, Delia. È più grande di lui, è bellissima – ma te ne accorgi solo al secondo o al terzo sguardo – e, soprattutto, non è della Fortezza. Ed è proprio questo il problema. Perché Valentino nasconde un segreto che non osa confessarle e soprattutto sente che scegliere lei significherebbe tradire la famiglia. Tradire Alan. E Alan non perdona. Questo è un romanzo sull’amore, spietato come solo quello tra fratelli può essere. Ma è anche un romanzo sull’unico altro amore che possa competere: quello che irrompe come il buio in una stanza piena di luce, quello tra un ragazzo e una ragazza, contro tutto e tutti.
La riconobbe dal brutto cappello di lana grezza che portava calcato fin sugli occhi. Nessuna ragazza normale avrebbe mai portato un cappello tanto orrendo. Forse neanche Vadim l'avrebbe mai indossato.
Un pensiero fugace gli attraversò il cervello per un attimo, una roba stupida, degna delle telenovelas che facevano piangere Anna e Mamma il pomeriggio dopo pranzo.

Il destino. Questa cosa si chiama destino.
 
Commento
Se c'è una cosa che io non so fare è condividere. Mi piace parlare di quello che leggo, mi piace trovare persone con i miei stessi gusti ma, a volte, divento irrazionalmente gelosa e possessiva.
Non accade spesso, ma qualche volta mi trovo tra le mani delle storie che non voglio condividere, che voglio tenere per me. Non voglio parlarne e non voglio che gli altri ne parlino, non voglio recensirle, non voglio che diventino di tutti. Mi prende una gelosia sciocca, senza ragione d'esistere e ci metto un sacco a superarla. Mi dico che è assolutamente stupido reagire in questo modo ad un romanzo, che è infantile e ingiusto, eppure non ci posso fare nulla, il mio primo istinto è quello.
Uscito Quella vita che ci manca la smania di possederlo, di averlo in casa e sapere che era lì ad aspettarmi mi ha mandata in crisi e poi ci ho messo tre mesi per decidermi a prenderlo in mano.
Lo dico anche se me ne vergogno un po': ci ho messo così tanto perché tutti lo recensivano, tutti lo leggevano - alcuni pure su mio consiglio - e io mi rodevo di gelosia.  Quasi mi disturbavano tutte quelle belle parole spese per descriverlo. Frasi attentamente costruite con un lessico cercato sui vocabolari, come se si volesse fare a gara con l'autrice stessa, per descrivere una storia che non ha bisogno di niente e di nessuno.
Quella vita che ci manca, come Il rumore dei tuoi passi, ha vita sua, parla da sé e non ha bisogno che qualcuno lo infiocchetti, che lo abbellisca per invogliarne la lettura. Ha una voce così forte, un'identità così netta che non serve dire nulla di più, sarebbero solo parole vuote.
Così io, che sono ancora preda di questa possessività innaturale, mi limiterò a svuotarmi la pancia, e poco importa se non sono elegante, se il mio commento verrà fuori senza un filo logico. Per me leggere la D'Urbano è così, mi toglie le parole, mi rende muta. Ogni frase che butto giù non esprime al meglio le emozioni e l'unica cosa che posso fare è sfogliare le parti che ho segnato, quelle che ti perforano il cervello con la loro potenza.
In questi casi dare  un voto è inutile, l'unico metro di giudizio sono le lacrime che ci hai speso sopra. Il podio - se si può usare questo termine - è di Bea e Alfredo, loro non li scalza nessuno. Loro non si possono nemmeno nominare senza che ti salga lo stomaco in gola. Avevo un terrore sacrosanto e una voglia morbosa di vivere le stesse emozioni. Ma non sarebbe stato giusto emulare quei due, riprendere personaggi e modelli e spalmarci sopra una trama nuova. A che serve, poi, quando dalla Fortezza puoi tirare fuori 10, 100, 1000 Alfredo e Bea?
Dalla Fortezza la D'Urbano tira fuori gli Smeraldo e quasi mi prende un colpo quando capisco che potrebbero passare per una famiglia comune. Alieni tra gli alieni, quasi non ci credi che sono mezzi delinquenti, che ti ruberebbero tranquillamente il portafogli o la macchina. Non ci credi e basta. E se c'è una cosa che ti fa veramente male è scoprire che almeno una volta nella vita hai guardato qualcuno come le persone guardano gli Smeraldo, pensando le stesse cose, temendoli e disprezzandoli, senza sprecare un minuto a giustificare una vita rovinata dalle circostanze. E ti senti pessima, orrenda, una persona ignobile perché sai che le apparenze ingannano, che ciò che vedi non sempre rispecchia l'anima delle persone e che se si tocca il fondo è perché non ci sono occasioni né vie d'uscita. E per questo non puoi fare a meno di amare questi personaggi, dal primo all'ultimo, con tutti i loro difetti.
Gli Smeraldo sono pietre grezze immerse nella cenere, ne intravedi la brillantezza, la preziosità, ma la loro luce è offuscata, nascosta dallo sporco, dalle brutture, dalla vita.
Era così la sua città, una serie di cerchi concentrici, e ogni cerchio corrispondeva al gradino di una scala sociale di cui Valentino non capiva niente.
L'unica cosa che capiva alla perfezione era che la fascia corrispondente a casa sua era quella della miseria nera, delle vite senza speranza.
Ami Anna, una giovane donna nata e cresciuta con la certezza di essere solo e per sempre la sorella che cura, cucina, pulisce. Anna senza identità, senza futuro, che ha grinta per tenere testa ai fratelli, energia e amore per accudire Vadim, comprensione per una madre che ha compiuto tanti errori ma che non li ha abbandonati. Ami Vadim nella sua semplicità di ragazzino, un uomo con la testa di un bambino, puro di cuore e legato ai fratelli da un affetto genuino. Ami Alan con i suoi numerosi difetti, con la sua aggressività e la sua fragilità. Ami Valentino per la sua tenacia nel non perdere la speranza, con quel suo attaccarsi alla normalità, ad una vita che sogna, desidera, ottiene. Ami Delia nella sua bellissima bruttezza, con quel suo continuo dimostrare che la rispettabilità - stare nella parte giusta della città - non è niente senza amore.
Ma sopra ogni cosa ami gli Smeraldo perché sono un'entità sola e non si possono scindere, non si possono definire senza la famiglia. Non si può e basta. Valentino, Alan, Vadim, Anna. Come si può cercare di capire uno senza coinvolgere l'altro?
Non fraintendetemi, la storia d'amore è struggente e bellissima, fa male come solo un amore tormentato può fare, ma non è il nucleo del romanzo. Il titolo non si può cucire solo su Vale e Delia, è perfetto per Vadim, è perfetto per Anna - in modo tragico e senza speranza che dilania -, è perfetto oltre ogni dire per Alan, perfetto persino per la madre. Quella vita che manca ad ognuno di loro è la vita che non si può fare a meno di desiderare: per Valentino che desidera e spera qualcosa di diverso; per Anna che non sarà mai altro che la sorella; per Alan, che si è strappato il cuore dal petto e l'anima dal corpo, che non sogna, non desidera e sopravvive soltanto; per Vadim che vive la vita semplice di chi è rimasto fanciullo. Per la Fortezza che sembra essere un buco nero che ti inghiotte e non ti risputa fuori e, se lo fa, è solo per ficcarti sotto terra.
Con un romanzo così non si possono controllare le emozioni. Ti lasci prendere, permetti che ti ferisca, accogli ogni luce e ogni ombra come se fossero la salvezza e assorbi le parole fin dentro l'anima.
Non c'è altro da aggiungere, le parole di Valentina D'Urbano dicono tutto e ti rimangono dentro.
Il sangue si lava, non è quello il problema.
Il problema sono le cicatrici, che rimangono e a distanza di anni ti ricordano chi sei e chi avresti potuto essere, e per questo fanno un male pazzesco.

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